I tempi sono maturi per smettere di demonizzare il marketing nella musica.
Le conversazioni sull’arte sono infarcite di un ridondante culto per il passato. ‘’Era meglio prima’’ è un leit motiv di ogni discussione artistica dall’alba dei tempi, mica da oggi. Per i commentatori del passato, i latini avevano rielaborato male le espressioni artistiche provenienti dall’antica Grecia; dopodiché per qualcosa come 12/13 secoli il metro di paragone di tutto furono proprio loro, quei romani che prima erano stati considerati un popolo rozzo, capace di grandi innovazioni tecniche e incredibili nell'ars bellica ma corruttore del buon costume, del buon gusto, della poesia, della commedia e della tragedia.
L’Umanesimo e poi il Rinascimento furono apprezzati proprio perché durante questo periodo si riscoprirono i canoni estetici e i valori degli antichi Romani (e anche dei Greci). Il ‘600 invece fu un secolo di ‘’corruzione artistica’’, perché il senso della misura tipico del classicismo si perse a favore dell’abbondanza, dello sfarzo, dell’imperfezione. A fine ‘700 fu tempo per una nuova riscoperta del gusto classico, con l’esplosione del Neoclassicismo; poi, quasi come reazione, fu il momento del Romanticismo, così moderno, anti-classico, disordinato. Quello che ha accomunato anni e anni di cultura e di arte, a ben vedere, è un rimpianto costante per il passato, tradottosi in ricerca costante ed esasperata di un ritorno al classico o in una reazione di rifiuto, come con il Barocco e con il Romanticismo.
Si tratta di retorica, più che altro. Una retorica piuttosto distorta, tra l’altro, perché sottintende che lo scorrere del tempo, almeno per l’arte, equivalga ad un costante regresso, un progressivo peggioramento, quando sappiamo che, per quanto vogliamo essere critici nei confronti dei nostri tempi, non è proprio così.
Limitiamo il discorso alla musica e ci accorgiamo che questo tipo di pensiero è incredibilmente ricorrente. Theodor Adorno, un filosofo della Scuola Austriaca e che ha scritto alcune opere molto interessanti sulla musicologia, negli anni ’30 criticò aspramente ‘’l’industria culturale’’, espressione che per lui era quasi ossimorica, perché considerava l’ingresso nel mondo della cultura di logiche di profitto totalmente incompatibile con una sincera e libera espressione artistica. O fai musica di qualità o fai soldi, detta in parole povere. Si tratta di un aut aut. E così criticò il jazz, da lui considerato il genere commerciale per eccellenza, perché finalizzato all’intrattenimento di un pubblico di massa e generalmente poco colto; di contro esaltava la musica classica, poco avvezza ad entrare nel mondo dell’industria culturale ed espressione delle più alte e complesse forme di musica, adatta all’orecchio di un pubblico raffinato, colto ed elitario.
Dopo Adorno, i generi figli del jazz si susseguirono uno dopo l’altro. Il rock’ n’ roll dei figli non poteva che essere considerato una degenerazione da quei genitori che erano nati e cresciuti con il jazz. Poi i figli di chi si è formato con il rock hanno iniziato ad ascoltare le nuove degenerazioni, fra cui il nostro amato rap. Poi il rap di oggi, quella che con molta approssimazione viene ricondotto nel sottogenere trap, viene considerata degenerazione da chi è cresciuto con Nas e il Wu Tang. In questa lettura, infarcita del peggior pessimismo storico alla Leopardi, ogni forma artistica è una degenerazione di quello che è venuto prima, ma è forma pura e apprezzabile rispetto a quello che è venuto dopo. Qual è la discriminante? Il fattore nostalgia, un elemento tutt’altro che oggettivo ma percettivo e che rende apprezzabile quello di ieri e vomitevole quello di oggi.
Negli ultimi tempi i discorsi di questo tipo non si sono di certo ammorbiditi, anzi. Probabilmente si sono rinforzati, perché l’industria culturale –che tanto spaventava Adorno– si è consolidata, ha resistito a più di una rivoluzione tecnologica, si è stratificata in contratti, accordi commerciali, consuetudini, affari, diritti di ogni tipo. La musica e ogni altra forma d’arte è diventata business, ma probabilmente lo era anche durante i tempi che il filosofo tedesco rimpiangeva. La musica oggi è di massa: questo impone l’adozione di un linguaggio comprensibile a tutti e aumenta l'intensità dei discorsi sul progressivo e inesorabile declino dell’arte.
Scommetto che tu che stai leggendo questo articolo hai sentito almeno una volta nella tua vita la frase ‘’ormai la musica è tutta commerciale’’. Ma oggi quale musica non è commerciale, essendo che la definizione di questa parola è, molto semplicemente, ‘’ciò che è in commercio’’? Quella di chi la fa in cameretta e se la tiene per sé e al massimo la regala a qualche amico o la dedica alla ragazza? Ho sempre pensato che discorsi di questo tipo lasciano il tempo che trovano, perché se è vero che la dittatura dei numeri rischia di stancare –come se ogni cosa fosse deducibile e comprensibile attraverso insight e stream– di certo l’approccio da eremita di rifiutare le regole del gioco e di puntare il dito contro tutti quelli che vendono 50 volte i dischi di quanto vendo io non è per nulla proficuo, anzi. Uscire dal gioco oggi equivale a negare la possibilità di avere un ruolo di protagonista attivo nell’arte. Ed anche restarci da rosicone non è poi tanto utile, come quelli che basano la loro carriera solo sul dissare gli altri e lamentarsi delle presunte ingiustizie che subiscono.
Riprendendo le fila del discorso, c’è un fattore che oggi rende ancora più presenti e asfissianti i fan dell’era meglio prima. Ed è la convinzione che oggi sia tutto marketing, una ‘’trovata pubblicitaria’’. La parola marketing viene spesso usata in senso dispregiativo, quando vuole ridursi i numeri e i successi di un artista all’abilità sua e dei suoi collaboratori nel realizzare una sapiente strategia di marketing. E così questa parola, tanto abusata ma poco compresa, rischia di voler significare –senza troppi giri di parole– fregare il fan e fargli consumare qualcosa che non ha reale valore artistico.
Il marketing viene spesso utilizzato in senso dispregiativo per motivi piuttosto chiari: viene visto come quella scienza oscura e mistica che determina il successo o l’insuccesso di un prodotto, a prescindere dal valore intrinseco dello stesso. Questa nozione semplicistica e fuorviante della parola è ormai definitivamente superata per chi mastica un minimo della materia, ma è rimasta ancora viva nelle convinzioni e nei discorsi di molti. Il marketing non è imbroglio, e non lo è mai stato; ma quando qualcuno riduce il successo di un artista e di un disco al marketing si riferisce a quella distorsione concettuale lì.
Capiamoci, nessuno sta affermando che il marketing ‘’da solo’’ possa giustificare il successo di artisti con poco talento, perché non è così. Ma sarebbe l’ora di evolvere la nozione di marketing considerata. Il marketing non è un imbroglio per farti comprare un prodotto o per fartelo pagare di più, ma un lavoro volto ed orientato all’accrescimento del valore del prodotto stesso. Ed è necessario capirlo, sia da parte degli artisti che da parte del pubblico e della critica. Per gli artisti perché loro sono i primi, molto spesso, a trattare il loro marketing come se fosse una mera strategia di persuasione del fan a comprare, e poco importa della soddisfazione del cliente: pensiamo al vendere più dischi oggi, domani si vedrà e t'appost. Per i fan perché passa anche dalla loro maturità un cambiamento di rotta da parte degli artisti.
Cerchiamo di capire bene cos’è marketing. Per definizione è, letteralmente, la ‘’messa sul mercato’’ del prodotto. Si tratta, in sostanza, di quel complesso di azioni con cui l’offerta definisce il prodotto e cerca di intercettare la domanda dello stesso, decidendo dove potrà fruirne, a che prezzo e con l'ausilio di una strategia promozionale.
Nella musica il marketing è per certi versi il ponte con la quale un artista comunica con i suoi fan, che rappresentano la domanda. Lo fa in tantissimi modi. Può farlo non essendo mai sui social, come Plaza tra i più giovani e Marracash tra i senatori. Lo può fare scrivendo sempre in maiuscolo e bevendo birra in uno dei teatri più belli di Milano, come Massimo Pericolo (ti vogliamo bene Vane). Può farlo pubblicando un disco punk rock e non renderlo disponibile sulle piattaforme di streaming, come recentemente ha fatto J-Ax.
Può farlo decidendo di pubblicare musica ogni settimana, come Ufo361, o registrando un intero album in un giorno, come Young Thug. Ancora, può farlo decidendo di affiancare a brani ‘’per tutti’’ altri brani ‘’solo per i fan’’, come fa spessissimo e in diverse modalità Drake.
Sono azioni, spesso non strategiche ma spontanee, che in qualche modo rappresentano marketing. Fanno parte della determinazione del prodotto, una delle cosiddette ‘’4 P’’ del marketing (le altre sono place, promotion e price) e che nella musica, a mio parere, ha una serie di peculiarità: in questo settore il prodotto è sia oggetto che soggetto, in quanto comprende tanto la musica quanto l'autore / interprete. E su questo ci sarebbe tanto da dire, perché è opinione di molti che oggi conti ‘’solo il personaggio’’, perché se un medesimo pezzo lo fa Danny il Pazzo o lo fa Sfera Ebbasta, i risultati numerici sono completamente diversi. Ma l’unica risposta che viene da dire, molto francamente, è ‘’grazie al c****’’. Oggi la musica è anche personaggio, e dobbiamo fare pace con questo. Ogni singolo brano che esce di un artista vive sulle spalle di tutto quello che ha fatto precedentemente. Sembra assurdo ribadirlo, ma il CHI fa arte –è sempre stato così, ma vale soprattutto oggi– è importante almeno quanto l’oggetto, ovvero l’arte stessa.
Tornando a noi, quasi ogni azione che un artista sceglie di fare, o che semplicemente fa, è marketing, perché incide sulla determinazione del prodotto, di cui l’artista stesso fa parte. Se la chiave stilistica e comunicativa di Enzo Dong è quella di bloccare il traffico e organizzare un flash mob per comunicare l’uscita del disco, Enzo Dong sta decidendo che prodotto rappresenterà la sua offerta. Il fatto che Lazza sia in ogni disco del 2020 è anch’esso, in qualche forma, marketing, è comunicazione di un modo d’essere al fan. E il fan questo modo d’essere lo terrà presente, registrerà alcune cose(la poliedricità e la produttività, nell’esempio) e se ne ricorderà nei suoi giudizi, che siano buoni o cattivi. Il fatto che Sfera non faccia uscire un suo singolo da così tanto è anch’esso marketing. Come lo è il fatto che abbracci uno stile di vita healty, tra fisico scolpito e pokè. Come lo è l’immagine da vincente assoluto del music game che si è sapientemente costruito.
Attenzione, nell’includere come ‘’mossa di marketing’’ tutte queste cose che ho elencato, che possono sembrare tali solo fino ad un certo punto, non sto dicendo che ogni cosa che fa un artista sia poco autentica e premeditata, anzi. Probabilmente Lazza ci ha semplicemente preso gusto ed è un artista preso benissimo con i colleghi e che si entusiasma nel collaborare con amici e artisti che stima, e quindi è nel disco di tutti. Dire che qualcosa ha implicazioni a livello di marketing non vuol dire che è necessariamente strategico, o premeditato, e questo vale per gli artisti ma anche per la più classica delle aziende.
Vuol dire semplicemente che ogni azione fa parte del complesso processo di costruzione del (personal, in questo caso) brand. I fan osservano attentamente ciò che fanno gli artisti perché vogliono cercare di capire chi sono, quali messaggi trasmettono, qual è la loro storia, i loro valori, ciò che amano e ciò che odiano, cosa gli piace fare e cosa non gli piace per nulla. Ed in mente loro costruiscono un’idea di quell’artista. E quest’idea non è cosa da poco, perché –se teniamo conto della validità dell’ipotesi iniziale, cioè che il prodotto nella musica è sia il brano sia l’artista– determina l’idea che il consumatore ha del prodotto che tu artista offri (e anche del prodotto ‘’che sei’’, sempre in considerazione dell’ipotesi di prima).
Ora, cerchiamo di chiudere un po’ il discorso e di centrare il punto. ‘’Persona’’ è probabilmente il miglior disco uscito in Italia negli ultimi 5 anni. Stiamo parlando di un prodotto di qualità, che si è fatto aspettare tantissimo: un progetto che ha vinto ogni tipo di riconoscimento anche grazie ad una ‘’logica della scarsità’’, che ha aumentato l’attesa e la percezione del valore. (Breve inciso: ritornando a quanto dicevamo prima, nella lunghissima attesa non c’è totale intenzionalità, lo sappiamo benissimo. Marra non ha pubblicato nulla perché non aveva nulla da dire ed era in un periodo di forte depressione. Tuttavia, anche qui c’è un margine di scelta, perché l’artista in questione poteva decidere di andare in studio, scrivere un paio di rime non ispirate e chiudere un progetto poco ispirato già nel 2018. Sarebbe andato probabilmente benino, considerando che parliamo di uno dei rapper indiscutibilmente più capaci in Italia, ma qualcuno sarebbe rimasto scontento. Non scrivere un disco poco ispirato è stata una scelta di prodotto e di tempismo assolutamente lungimirante).
‘’Persona’’ è uno dei dischi con la migliore promozione degli ultimi tempi, perché si è trattato di un racconto coerente con il disco. I fan, quando hanno ascoltato il progetto, hanno trovato probabilmente quello che si aspettavano, eseguito in una maniera ancora migliore di ogni più roseo pronostico.
Oppure i visual usciti su YouTube di ogni brano?
Oppure l’intervista con Noisey che è diventata culto assoluto?
Ecco, queste sono tutte mosse di marketing azzeccatissime. Il che non vuol dire assolutamente (so di averlo detto già 4 volte, ma tengo molto a non essere frainteso) che non siano autentiche; anzi, sono mosse di marketing riuscite perché sono autentiche, sono coerenti, sono vere. Marra non ha parlato di depressione nelle interviste per vendere il disco, ma perché rappresenta un elemento di valore, un pezzo imprescindibile nello storytelling di questo progetto. I video non sono in bianco e nero a caso, ma lo sono perché c’è una scelta estetica, e simbolica, che rivediamo anche nella copertina e anche nel mood del disco. Il bianco e nero lo sentiamo nei pezzi, perché è un album decadente, nichilista, crepuscolare, sofferente, profondo. Lo sentiamo in ‘’Qualcosa in cui Credere’’, ma anche in ‘’Tutto questo niente’’ e ‘’Crudelia’’. Anzi, dirò di più: ‘’Persona’’ per come lo conosciamo oggi è tanto perfetto in ogni sua componente da non poter avere un’altra copertina, o un altro tipo di comunicazione. Ogni tassello è coerente, ogni mossa di contorno prende vita dal prodotto musicale e ha senso soltanto se interpretato all'interno di questo universo.
Non è solo una questione di cosa includi nella tua narrazione, ma anche di cosa escludi. Dite la verità, in quei lunghi anni di attesa del disco di Marra non pensavate anche voi che fosse chiuso in studio a scrivere il disco della vita? Marra avrebbe potuto credibilmente giocare su questa cosa: un disco dalla produzione lunghissima, caratterizzato da un'eterna fase di scrittura, un labor limae certosino e perfetto. E invece? Marra non ha fatto mistero di aver scritto il disco in 3 mesi, praticamente. 3. TRE. Pensa a tutte le cose che non hai fatto negli ultimi 90 giorni e pensa a cosa Marra ha scritto nello stesso lasso di tempo. E anche qui l’autenticità ha pagato, perché l’immagine di lui che ha sofferto per anni per poi riprendersi tutto anche grazie alla necessità scottante di esprimersi (qualcuno ha parlato di ‘’funzione catartica dell’arte’’?) è fortissima. E non solo a livello di marketing, ma a livello artistico e umano, soprattutto. Il fan, grazie a tutti questi essenziali dettagli, ha un coinvolgimento diverso con la musica di Marracash: è un qualcosa di totale e di profondamente autentico. Siamo stati tutti un po’ protagonisti della sofferenza di Marra, e poi della sua vittoria.In questo c’è anche tanto marketing. E non è una cosa negativa, lo ripeto per la quinta volta. Secondo me è una cosa bellissima, perché avvalora ancora di più qualcosa che ha già grande valore di suo.
Facciamo brevemente un altro esempio. Ricordate come J. Cole comunicò l’uscita di ‘’KOD’’?
L’ultimo album di Cole è senza dubbio uno dei dischi con la migliore comunicazione e strategia marketing degli ultimi anni. Nel 2018 l’assenza di esposizione della propria vita sui social media per un artista è un rischio che è disposto a correre solo chi è al corrente della potenza della propria musica. J Cole è uno di questi pochi, ma non sempre basta sparire dai social per farsi desiderare: dipende da come sparisci e soprattutto da come ci torni.
Cole dapprima elimina tutte le foto da Instagram, mettendo come immagine del profilo una foto totalmente viola. Su Twitter scrive e cancella poco dopo ‘’it’s time’’. Si comincia a parlare ovunque del suo possibile nuovo disco. Dopo poche ore, arriva su tutti i suoi social l’annuncio di un live gratuito previsto per la sera successiva, in un teatro dalla capienza di 500 persone a New Yotk. ‘’Niente telefoni, niente fotocamere, niente borse, niente liste stampa. Chi arriva prima entra’’. Nessuno ha ben chiaro cosa stia accadendo. Tutto questo casino per un live? E poi perché solo 500 persone?
Nell’incomprensione generale, il live avviene in esclusiva per quei fortunati fan, J. Cole suona ‘’KOD’’, il suo nuovo album. Solo poche ore dopo il live arriva il tweet dell’artista che annuncia l’uscita del disco per il 20 aprile. Su Twitter i fan che hanno assistito all’evento iniziano a parlare di quello che sarà l’album, del significato del titolo, del suono e delle rime. Non molto tempo dopo il ritorno su Twitter di Kanye e l’annuncio del nuovo album di Drake, Cole domina totalmente la conversazione.
Non finisce qui: il 18 aprile 2018 Cole annuncia un nuovo live, stessa capienza, questa volta a Londra. Intanto i fan parlano di un certo ‘’Kill Edward’’, una sorta di alter-ego di Cole menzionato durante il live del disco (un po’ quello che Slim Shady è per Eminem). Spunta dal nulla sulle piattaforme di streaming una traccia intitolata ‘’Tidal Wave’’, cantata da Kill Edward, il quale è in realtà Cole con voce modificata nella tonalità. A questo segue la pubblicazione su tutti i social della copertina ufficiale e della tracklist. Conversazione dominata, un’altra volta. ’’KOD’’ è senza dubbio uno dei migliori esempi di una comunicazione ben riuscita, perché ha attirato tanta attenzione e ha generato una fidelizzazione massima con il pubblico di riferimento, ovvero con la domanda.
Sia nel caso di ‘’Persona’’ che in quello di ‘’Kod’’, siamo davanti ad una comunicazione vincente. In questi due progetti è evidente come il marketing non sia imbroglio, ma creazione ulteriore di valore e aumento della sua percezione. Gli artisti dovrebbero ambire a questo marketing, destinato a restare per sempre e a porsi in un rapporto simbiotico con la musica. Questo approccio ci insegna a conoscere la nostra domanda e a non ambire a soddisfarne una a cui non possiamo arrivare senza snaturare il nostro prodotto o senza tradire i nostri fan.
Fatti questi esempi, dovrebbe essere chiaro come il marketing non sia un sintomo della mercificazione della musica, ma uno dei migliori risvolti –se utilizzato con cognizione di causa– del fatto che oggi la musica sia inserita in un contesto industriale. E non c’è troppo spazio di opinabilità sul fatto che la musica sia merce con un prezzo, a prescindere dal grado diverso di ispirazione di ogni brano: intorno ad ogni registrazione gravitano un complesso enorme di diritti, interessi ed economie da cui mangiano direttamente o indirettamente tantissime persone.
La figata è che oggi il marketing non è la pubblicità ingannevole, ma è quel complesso strategico di operazioni che determinano il successo o l’insuccesso di un prodotto. Tornando allo schema delle 4P, il marketing è in primis definizione di cos’è il prodotto. Questo non vuol dire che tutta la musica sia marketing (e, cioè, che l'artista produca solo in funzione della domanda), ma che l’artista con tutte le sue azioni e le sue scelte ha un ruolo fondamentale nel farsi profeta della sua musica e portarla alla sua domanda. In ogni settore l’offerta cerca di intercettare la domanda, e la musica non fa differenza. Non può fare differenza, perché non esiste un modello alternativo. Se oggi abbiamo tanta musica ogni giorno sui nostri cellulari, è perché esiste un’industria culturale che lavora e che produce. Certo, non è tutto rose e fiori, perché l’ingresso della logica del profitto nell’arte genera inevitabili controindicazioni. Ma il punto è che il marketing, per come è inteso odiernamente, non si ispira alla logica del profitto, perché ha l’obiettivo innanzitutto di aumentare il valore e la sua percezione: questo non vuol dire che non sia orientato all’ottenimento di guadagni, ma che i profitti siano una conseguenza della creazione e dell’aumento di valore operato dal marketing.
Non sono sbagliate le argomentazioni di chi dice che certi artisti sono ‘’solo hype’’. Ma, badate bene, se la ricerca dell’hype fine a se stesso è sicuramente qualcosa di esistente (e ne abbiamo avuti diversi esempi di recente), questo non vuol dire che rappresenti un esempio di ‘’buon marketing’’. Una buona strategia di marketing è quella destinata a restare, perché il consumo –c’è sempre più consapevolezza a riguardo– è sempre più un fatto emotivo, legato alle memorie, ai ricordi, ai sentimenti.
Un buon marketing non è la creazione di un pacco vuoto con un packaging e una promozione che promettono i più pregiati diamanti, ma una strategia complessa, organica, accattivante (ma sincera) e che non lascia brutte sorprese. Vero è che per come è strutturata l’industria musicale, un marketing fatto di gesti eclatanti e di tanto clamore può vincere sul breve. E da qui nasce l’indignazione di molti. Ma la musica è una maratona, perché è un settore a così alto grado di concentrazione e possibilità di entrata (ergo, ci sono milioni di artisti, il ricambio è continuo e pubblicare musica non costa quasi nulla, di certo non costa quanto produrre auto da corsa o mozzarelle) che non potrebbe essere altrimenti. Ed in questa maratona non vince chi distrugge i record per un giorno e finisce nel dimenticatoio, ma chi riesce a trovare il suo posto, a consolidarlo e a raccogliere, con costanza e dedizione, i frutti del proprio lavoro. Esistono artisti che sono solo marketing, ma non credete che vivranno di musica a lungo. Potranno vivere della notorietà, quello è più probabile, ma è un altro paio di maniche e un’altra fetta di torta.
Avendo questo concetto di marketing in mente, si riesce a fare pace con molte cose. In primis con il fatto che la musica oggi è pienamente inserita in un contesto capitalista: è merce e non può non esserlo (una forma bellissima e particolarissima, ma pur sempre merce). In secondo luogo, ci aiuta a fare pace con gli artisti, perché per quanto abbiamo detto i primi soggetti che determinano il marketing del prodotto musica sono proprio loro(che, con un giro concettuale un po’ contorto, sono anche prodotto) con tutte (o quasi) le loro azioni ''pubbliche'', che siano intenzionali o meno. Nelle major lavorano molte persone che si occupano sostanzialmente di questo, del marketing, ma per quanto abbiamo detto l'attore protagonista nel marketing musicale è l'artista: con l'avvento dei social il discorso è ancora più valido. In terzo luogo, fa sì che perdiamo anche un po' di quel noiosissimo pessimismo storico di cui parlavo nell'introduzione e che oggi si alimenta anche in questa rabbiosa avversione al ''marketing culturale''.
Infine, ci permette di riconoscere nel marketing un momento importante nella creazione della musica, che aiuta l’artista stesso a interrogarsi e a definire al meglio le sue peculiarità. Mi spiego meglio: se un artista ha presente le ‘’istanze’’ del marketing, le sue strategie e i suoi strumenti di comunicazione e di creazione di valore, potrebbe essere portato ad interrogarsi più profondamente su cosa è la sua musica, su che spazio vuole prendere come artista, su quali modelli vuole prendere come riferimento, su qual è il suo pubblico e quali sono le sue caratteristiche (anche perché il marketing è innanzitutto comprensione della domanda). Un esempio è tha Supreme, un artista che consolida il suo brand in ogni cosa che fa, in ogni progetto che comunica, in ogni video che pubblica: in lui tra musica e tutto il contorno c’è una relazione a doppio senso, dove l’uno influenza e definisce l’altro. In questo senso, il marketing è anche una forza creativa, un processo con cui un’idea prende forma e acquisisce gli strumenti per essere comunicata al pubblico.
Ho scritto 22000 caratteri per dire un qualcosa di relativamente semplice, quindi provo a riassumere. Il marketing è una figata ed è una forza di per sè ‘’neutra’’ che può essere utilizzata male (cercando il clamore e l’hype fine a se stesso, vincendo sul breve e perdendo sul lungo) oppure bene (lavorando in simbiosi con la sostanza e aiutandola ad arrivare a chi di dovere, vincendo con anni e anni di lavoro). E chi ha capito questo, non solo nella musica ma nel business in generale, è cinque passi avanti. Un buon marketing non è la strategia che fa parlare tutti di te per un giorno per poi finire nel dimenticatoio, ma quello che ti permette di creare un legame con la tua nicchia (con questo termine non intendo qualcosa di esiguo ma di solido e identitario, a prescindere da che sia una grande nicchia o una piccola) e che ti può aiutare ad espanderla in maniera ‘’sostenibile’’ e credibile. Non è urlare al massimo per farsi sentire in una stanza in cui tutti urlano alla ricerca dell’attenzione del consumatore, sperando che la sua vena compulsiva di acquisto si attivi quasi per disperazione o per rincoglionimento, ma riuscire a parlargli e creare un legame solido e duraturo, puntando infine alla sua soddisfazione.
Nella musica il marketing non dovrebbe essere più un tabù, ma solo una grossa possibilità per definire e allargare gli orizzonti degli artisti. I tempi sono maturi per fare pace con questa parola.