Adottare una strategia comunicativa musicale genera, da sempre, reazioni ambivalenti.
Non conoscevo Jake Udell e Amber Horsburg fino a qualche mese fa, poi per caso ho letto un loro dibattito. Imprenditore musicale acclamato da Forbes e Billboard con progetti pluripremiati perfino ai Grammy lui e music strategist lei.
Nell’articolo la predominante verte sulla riuscita di una o più strategie comunicative, finalizzate alla fidelizzazione e/o all’incremento della fanbase.
Udell sostiene che il marketing più riuscito che un artista può mettere in atto è quello rivolto ai suoi fan, investendo tempo e denaro in contenuti di qualità piuttosto che cercare di raggiungere più ascoltatori possibili. La Horsburgh invece, afferma che la strategia più redditizia sia proprio quella di concentrarsi sui neofiti o gli ascoltatori marginali, e lo fa attraverso alcuni dati raccolti tramite Spotify che relazionano gli stream mensili (e quindi la grandezza dell’artista) alla maggiore possibilità di incrementare il proprio range di supporters.
Il che è oggettivamente innegabile, ma non credo che l’opzione Udell sia da escludere a priori. In fin dei conti più fan di base hai, più ascoltatori mensili ottieni. Seppure rimangano mere supposizioni considerando che la piattaforma mostra il totale degli ascolti e non la crescita progressiva.
Diciamo però che condivido forse più la prima linea di pensiero.
Viviamo in un mondo di forte comunicazione. Questo rende da una parte più facilmente accessibile l’approccio a nuovi artisti, ma dall’altra rivela la necessità di ricevere un “consiglio autorevole”, fidato in qualche modo. In altre parole, se la fanbase viene soddisfatta in maniera costante e premurosa, questa sarà portata con maggiore facilità all’espansione, condividendo il suo interesse all’esterno. Facendo quello che Calvin Klein capì già negli anni ’90 con il sagging: la self promotion diretta del consumatore.
Come Amber H. non escludiamo che queste due realtà possano coesistere, ma l’industria musicale sta davvero facendo abbastanza?
Fino a qualche anno fa – e purtroppo in Italia ancora persiste questo metro di misura – il livello espositivo di grandezza assoluta era il passaggio radiofonico o televisivo. L’affermazione si otteneva mediante il mezzo.
Ora gli strumenti sono cresciuti e la tecnica per raggiungere l’Olimpo si è affinata.
«La creatività è un moltiplicatore economico per la creazione di nuovi fan.» A. Horsburgh
Le etichette discografiche spendono circa l’80% del budget riservato al progetto nella creazione di contenuti. Tutto per rendere l’artista distinto, caratterizzato e pertinente.
Facciamo una digressione e pensiamo per un attimo a com’era strutturata MTV. Veicolata attraverso la TV era improntata sulla condivisione, erano gli stessi talk con il pubblico presente in una situazione di comfy – seduti a terra – a dircelo; ora è tutto diverso. Quello che era la TV è diventato lo schermo di un device mobile, YouTube ha sbaragliato il concetto di concorrenza e la fruizione, il più delle volte, avviene in solitaria.
Questo ha avuto ripercussione anche sull’investimento monetario vero e proprio non solo delle aziende partecipi in prima linea, ma anche di tutte le correlate.
Altro esempio, il Super Bowl: supponiamo che il suo costo medio di produzione sia € 1,000,000/5,000,000, la sponsorizzazione dell’evento sarà almeno il doppio.
In altre parole, la portata conta più della produzione.
Possiamo dire che il mercato discografico vero e proprio, quindi non il management, in questo differisca, essendo la produzione il prodotto stesso; eccezion fatta per alcuni, generalmente i video vengono realizzati con un budget maggiore rispetto a quello destinato per la mera promozione. E probabilmente non arriveremo mai a quella percentuale dedicata da altri settori al marketing, ma sicuramente c’è un’attenzione più alta e qualcuno ha già iniziato a riprogrammare la strategia comunicativa.
Non so se vi sia mai capitato tra le mani qualche scritto di Cialdini (o abbiate partecipato a briefing aziendali, lì è gettonatissimo), uno psicologo statunitense che da qualche anno insegna marketing all’Arizona State University.
I suoi studi si incentrano sui processi cognitivi alla base della persuasione interpersonale e si riassumono in sei punti circa. Penso che due siano particolarmente pertinenti al discorso affrontato fin ora e distinguano bene quelle che, a mio avviso, solo le categorie predominanti del mercato musicale odierno: il principio di impegno e coerenza vs quello di scarsità.
La prima categoria è quella di artisti come Big Sean o Eminem, che nel tempo sono rimasti non solo riconoscibili, ma hanno prodotto in maniera più o meno continua, mantenendo la promessa implicita fatta ai propri fan.
Della seconda invece ci sono esempi a non finire, anche in Italia. Attenzione, non è da intendere in maniera negativa, anzi. È comprovato che tendiamo a sottovalutare ciò che abbonda, sopravvalutando o attribuendo un valore maggiore a ciò che invece è presente in maniera minore.
Può essere una motivazione sufficiente a giustificare i vari annunci di ritiri e le successive smentite di artisti come Noyz Narcos, Rocco Hunt o Nicki Minaj, Justin Bieber e Lil Wayne?
Rocco Hunt, Enzo Dong sono tra i più recenti ad essersi concessi lunghe pause annunciate tramite social, papabili addii e poi rilasci di singoli o album sull’onda dell’altissimo hype generato.
«Dissi che sarebbe stato l’ultimo in un momento in cui mi sentivo spaesato, mi sembrava che il rap fosse diventato un’altra cosa.»
L’anno scorso invece, a mettere in ginocchio i fan di tutta la penisola era stato Noyz che, in diverse interviste, aveva annunciato “Enemy” come ultimo progetto musicale ufficiale.
Ricordo che quelle sue poche frecciatine alla possibilità di abdicare raccolsero migliaia di - prevedibili - commenti, ma nonostante l’amarezza che sentì anch’io, trovai le argomentazioni piuttosto convincenti. Parlò per la prima volta delle pressioni subite, delle aspettative dovute alla copiosa e decennale carriera, descrisse il processo creativo antecedente all’album come qualcosa di provante ed emotivamente faticoso; di quanto fosse difficile rinnovarsi rimanendo coerenti.
Non mi sembrò una strategia.
«Oggi che conta più l’immagine che la sostanza, e che tutto è cambiato da quando ho iniziato, questo potrebbe essere per me l’ultimo disco. C’è tutto il mio passato, il mio presente e forse anche il mio futuro in questo gioco. LOYAL TO THE GAME.»
Fu questo il commento lasciato tramite Facebook ai fan pochi giorni prima del rilascio.
L’epilogo lo conosciamo tutti: disco d’oro in una sola settimana, disco di platino poco dopo nonché vinile più venduto del 2018 in Italia.
Non sappiamo se effettivamente questo sarà il suo ultimo album solista, ma le continue collaborazioni e la presenza nei progetti più ambiti di quest’ultimo periodo lo confermano capo saldo e irrinunciabile del rap game.
Ascolta ora
https://open.spotify.com/track/6lszzKN72DyDRc4GFCYL0C?si=AuKDkPLNRMij_63pBmvjtA
Nello stesso anno un annuncio simile è arrivato da Salmo:
«Sono stati sei anni vissuti intensamente e dopo quest’album mi voglio fermare», dice intervistato da Rolling Stone. «Sono stanco, mi sono rotto il ca**o del rap game e della competizione. Voglio smettere un po’ con la musica, imparare un po’ la dizione, approfondire il discorso della regia. Non ho mai studiato in vita mia, è la volta buona che comincio.»
Anche qui nessuna certezza in merito al singolo, ma la portata del “Machete Mixtape 4” non si è ancora esaurita.
Ascolta ora
https://open.spotify.com/track/5yD4Ji9FAZrthZNKsRqaA2?si=NUL_4NvwRIWItviykvGL7w
La scena internazionale porta con sé un’infinita lista di esempi possibili.
Da Lil Uzi Vert a Bow Wow, passando dalla crisi mistica che accompagnò Drake e tutti noi quando dopo la release di “Views” balenò l’idea di prendersi una pausa. Lo stesso Drizzy che a distanza di qualche mese supportò il periodo più buio della carriera di Lil Wayne: nel bel mezzo di una faida giudiziaria con la sua ex label Cash Money Records annunciava tramite Twitter il ritiro dalla scena.
https://www.instagram.com/p/BJ9wzDcDTB8/?igshid=11t8zi4zmvlbr
Nulla di definitivo da quel lontano 2016, come non conclusa pare essere anche la carriera di Nicki Minaj, nonostante gli annunci dello scorso settembre.
Con un tweet sbrigativo, seguito solo da qualche accenno all’interno del suo programma Queen Radio, in onda su Apple Music, manifestava la volontà di ritirarsi per dedicare tempo alla famiglia e al compagno Kenneth Petty. Strategia o meno qualche mese più tardi arriva il ripensamento:
Il post di questo presunto ritorno è stato cancellato dal profilo ufficiale dopo pochi giorni, ma le sue parole hanno fatto da eco a milioni di fans che sui social reclamano ancora il come back ufficiale.
Più discussa è la figura di Bieber, affezionatissimo al fenomeno boomerang.
Dal 2013 a suon di grandi annunci social comunica sistematicamente la scelta di prendersi una pausa. Eppure, in questo mare di milioni e milioni di repost e perplessità sul futuro della sua carriera musicale, si sono fatti largo un disco – “Journals” – e il film Justin Bieber’s Believe. Al di là di qualche apparizione sporadica si sta dimostrando coerente, è infatti dal 2015 che non rilascia nulla, ma qualche indiscrezione è già iniziata a trapelare.
Il claim pubblicitario perfetto per chi da anni è sempre e ovunque è quindi quello di dichiarare la resa? Quanto può essere funzionale oggi che a tutti è chiara la strategia, una mossa simile? Non rischia invece di minare la fanbase?