Abbiamo parlato con Mace del suo nuovo disco.
Non so ben dire quale sia l’ingrediente che possa assicurare il successo di un disco.
In alcune cose cerco di essere idealista e pensare che ogni tanto possa davvero capitare che il talento di un artista riesca a arrivare in maniera talmente cristallina e trasparente al pubblico da far capire a tutti il peso specifico di ciò che viene creato.
Me lo chiedo mentre sto per parlare con Mace, ma cerco di concentrarmi e metto da parte il pensiero.
Mace risponde alla chiamata di Zoom, mentre sullo sfondo vedo dei pacchi di cartone e un trasloco in corso. Il personaggio di Mace è sempre stato caratterizzato dall’evoluzione, quindi, dopo i convenevoli, la prima domanda che gli faccio è cosa lo abbia portato a evolversi dal rap dei primi anni, per passare attraverso l’elettronica e la trap, per poi tornare al rap.
Lui sorride e mi dice: “Sicuramente la curiosità. Sono un essere estremamente curioso e sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo con il quale confrontarmi, quindi questa attitudine mi ha reso sempre molto incline alla novità, e quindi anche di contro a stufarmi presto delle cose che faccio” e scoppia a ridere “quindi è proprio fisiologico per me ogni tot di tempo imbarcarmi in generi musicali completamente diversi o in approcci completamente diversi anche all’interne di uno stesso genere”.
Poi conclude: “E poi spesso io cito il viaggiare come mia più grande fonte di ispirazione perché mi crea un’apertura mentale così forte che mi aiuta a mettere insieme i pezzi spesso impensabili e a cambiare approccio al pensiero; e quindi a rimanere sempre in costante mutamento”.
Evoluzione: ecco la parola alchemica che può descrivere il progetto artistico di Mace. Quando gli chiedo di ripercorrere il suo percorso, lui comincia: “Ho iniziato con il rap nei primi 2000, quindi con un approccio totalmente diverso ed era l’unica cosa che volevo fare in quel momento. Dopo pochi anni, paradossalmente quando l’hip hop stava iniziando a diventare mainstream davvero, quando iniziavano ad esplodere Fibra, i Dogo - e a fare dei dischi della madonna obiettivamente - io lì ho perso interesse. Ma forse appunto perché c’ero da troppo, non mi faceva impazzire l’ambiente, se poi vogliamo essere sinceri” mi confessa, per poi tornare alla narrazione: “E ho iniziato a fare musica elettronica, in maniera molto naïf all’inizio, più scoprivo più capivo cosa mi piaceva. Abbiamo fondato Reset! subito dopo, una realtà che ha portato cinque ragazzi di Milano a fare il giro del mondo come dj - dall’Australia al Giappone, a Ibiza - e a fare feste da migliaia e migliaia di persone a Milano”, poi sospira e continua: “Però dopo qualche anno si è arrivati a un livello di saturazione e ho iniziato a cercare anche altro dalla musica. Quindi siamo passati dalle club track a fare remix molto per la “pista”, a cercare di ibridare la musica elettronica che facevamo con il rap o con il cantautorato italiano. Poco prima che finissimo l’album ho scoperto la trap, stiamo parlando di fine 2012, e ho iniziato subito a suonarla. La trap era ancora una musica strumentale che arrivava dagli Stati Uniti, quella roba mi ha flashato, credo di essere stato uno dei primi dj in Italia a suonarla, e a farlo in mezzo a un set di cassa dritta. Ovviamente su 3000 persone 2800 erano un po’ ferme, non sapevano neanche come ballarla quella roba. Però quei 200 che lo facevano toccavano il soffitto, perché era una roba nuova”.
“Da lì ho iniziato un mio percorso, da solo, staccandomi poi da Reset!, a fare le mie tracce di quella che era a cavallo tra la prima trap e quella che poi hanno chiamato future bass, (che è poi diventato un genere di merda, fagocitato dal meccanismo EDM americano) e a quel punto mi sono sfilato via, perché ha ammazzato completamente la creatività del genere”.
Dopodiché si ferma un attimo a pensare e mi dice: “in un momento di crisi creativa, dove non sapevo bene cosa volevo fare -ti parlo del 2015/2016- mi son detto detto “Boh, magari intanto faccio un po’ di beat”, così, solo per continuare a fare musica, ma senza capire quale sarebbe dovuto essere il mio prossimo step da artista, perché io più che produttore son sempre stato creatore della mia stessa musica: con La Crème, con Reset!, poi da solo. E poi, poco dopo, ho iniziato a produrre, ho fatto “Pamplona”, dopo che avevo già prodotto Noyz Narcos e Gemitaiz, e la traccia è esplosa molto. Da lì sono iniziate a piovere parecchie richieste di produzione. Quindi negli anni successivi mi sono dedicato più a quello”.
Tra le altre cose, il successo di Mace si è sviluppato per lungo tempo al di fuori del nostro paese, anche se poi la volontà è stata quella di tornare in Italia: “Ho avuto una parentesi in cui ho vissuto in Sud Africa, e lì ho fatto un album che non ho mai fatto uscire. Poi sono tornato qua e ho detto “Ora è il momento di iniziare il mio disco, qui, in Italia”.
"Innanzitutto sono andato là perché volevo scappare per un pò dall’Italia, sentivo che non avevo più stimoli. Tra l’altro a me non è mai interessato fare il disco da produttore rap ed è il motivo per cui non l’ho mai fatto ai tempi dopo La Crème, così come negli anni successivi. Quando però ho iniziato a capire che avrei potuto metterci un sacco di influenze diverse, mi si è iniziato a chiarire un po’ il quadro mentale e lì ho capito come lo volevo fare” e sorride.
Continua allora: “Devo dire che nella scena italiana ho iniziato a trovare tantissimi interpreti che mi piacevano di più. Prima ero sempre stato proiettato verso l’estero, poi ho capito che invece iniziava ad esserci un sacco di roba bella in Italia, sapevo che se avessi direzionato i miei sforzi verso qua, avrei potuto fare la differenza per poter lasciare un piccolo segno significativo qua. E quindi mi son detto “Ok, è il momento”.
Ascoltando il disco, il file rouge è la presenza di Venerus, che ormai da mesi collabora con Mace e dimostra la perfetta compatibilità tra i due animi artistici: “L’incontro con Venerus è stato cruciale” esordisce lui “perché oltre aver iniziato a produrre insieme quasi tutti i suoi brani, abbiamo iniziato a produrre insieme anche una parte delle mie robe. E aver trovato un soulmate così forte, con cui condivido tantissimo sia il pensiero che il gusto musicale mi ha spinto a pensare che insieme possiamo fare delle figate pazzesche”.
Quando gli chiedo di ripercorrere il momento in cui si sono conosciuti, lui esordisce: “Ci siamo conosciuti appena sono tornato dal Sud Africa, quindi meno di 3 anni fa. Ci siamo conosciuti perché ero tornato per fare delle date da dj che avevo già bookato, una delle quali era a Roma, al GOA; e ogni volta che vado a Roma passo a salutare Frenetik&Orang3, che sono miei carissimi amici. Quel giorno lì c’era anche Venerus, del quale avevo ascoltato un paio di demo che mi avevano flashato tantissimo. L’ho conosciuto e abbiamo fatto click istantaneamente, anche a livello personale. Quindi quello è stato il primo incontro, e già lì abbiamo capito che ci intendevamo molto”.
Poi continua: “Quando sono tornato qualche mese dopo sono stato da lui una decina di giorni e abbiamo iniziato effettivamente a comporre insieme, e c’era un’alchimia che non avevo mai provato con nessun’altra persona. Gli ho proposto di venire a Milano, lì avevo il mio studio che sarebbe diventata anche casa sua, gli avrei prodotto tutti i suoi brani, ma volevo anche coinvolgerlo sulle mie robe, sulle produzioni, sia mie sia quelle che faccio per altri artisti; perché funzionavamo troppo bene e insieme potevamo fare delle cose troppo belle. E probabilmente avevo ragione!” e scoppia a ridere.
“Dopo due mesi lui ha lasciato casa a Roma ed è venuto a Milano, e da lì abbiamo iniziato proprio a condividere lo studio e a diventare inseparabili, sia a livello umano sia a livello artistico. Nel disco, al di là dei suoi featuring, alcuni brani li abbiamo proprio composti insieme, in almeno due brani su tre secondo me ci ha messo qualcosa: in un brano i cori, in uno le chitarre, nell’altro i synth. Ma la sua mano c’è su quasi tutte le tracce”.
Il tema del viaggio è alla base di “OBE”, quando gli chiedo quanto questo tema lo abbia influenzato, mi risponde subito: “Assolutamente. Per me viaggiare ha un’influenza sicuramente più sul pensiero che sulla musica in sè. Anche se l’Africa è un territorio che mi ha dato tanto a livello musicale, ascolto tanta musica africana, sia vecchia che moderna, così come quella brasiliana o come la musica indiana. Ma per me viaggiare è più importante per aprirti la mente. Scontrarsi con dei sistemi di pensiero così diversi aiuta a far crescere anche il tuo, ti fa vedere le cose da un punto di vista diverso. “OBE” racchiude anche la mia filosofia di viaggio perché la vedo come un’esperienza extracorporea grazie alla quale esco dal mio corpo, dalla mia quotidianità e vedo le cose da un’altra prospettiva. Quindi viaggiare mi ha sicuramente insegnato questo. Ho iniziato a 20 anni, quindi sono 18 anni che viaggio, e questa è la mia influenza più grande”.
C’è anche un altro versante del viaggio, che è la parte più “psichedelica” e che compone il viaggio di “OBE”. Chiedo quindi a Mace come quest’esperienza abbia influito nel disco e come si sia approcciato a questo mondo: “Sicuramente con grande curiosità, sono comunque stato sempre un po’ psiconauta, mi piace sperimentare su me stesso. La verità è che ho avuto un brutto trip parecchi anni fa, perché ho fatto il classico errore che fanno tutti, cioè sperimentare in maniera incosciente, senza sapere cosa stavo andando a fare. Ho parlato poi di questa esperienza con mio padre, che mi ha suggerito di provare l’ayahuasca, è una miscela di erbe che si prepara da migliaia di anni in Amazzonia, ed è un’esperienza completamente diversa e molto più cosciente. Quindi l’ho provato, mi ha aiutato tantissimo, e da lì è iniziato la mia esplorazione” mi racconta: “Ora so come approcciarmi a questo mondo e so cosa aspettarmi. Anche queste sono esperienze che ti fanno vedere te stesso da un’altra prospettiva e ti aiutano a farti sentire molto più connesso con il mondo che ti circonda e con le altre persone. Quindi sono una persona radicalmente cambiata, sono molto più tranquillo, più sereno, ancora più aperto di mente e sono più consapevole. È un percorso che mi ha modellato completamente, mi ha aiutato a connettere punti che spesso non connetti, e sono anche momenti in cui tu ascolti la musica in maniera radicalmente diversa”.
Poi si ferma un secondo e riprende: “Non è facile da spiegare a parole, però come tu hai delle allucinazioni visive dove la realtà prende una forma diversa, anche i suoni prendono una forma diversa. Iniziando ad ascoltare la musica da una diversa prospettiva ho capito come volevo che la mia roba suonasse. Chiaramente sono argomenti molto delicati, più che altro perché sono sostanze illegali e vengono considerate come droghe dall’opinione pubblica, ma c’è tantissima disinformazione. Mi piacerebbe solo che le persone si documentassero a riguardo, che si incuriosissero a queste cose; mi piacerebbe perché secondo me sarebbe un mondo migliore. Però, ripeto, prima di approcciarsi a questo tipo di esperienze bisogna essere molto coscienti di quello che vai a fare e soprattuto farlo con le persone giuste nel posto giusto”. conclude.
La forza di “OBE” è il calare ciascun artista all’interno del mondo di Mace, lasciando spazio libero di affermazione al singolo interprete, ma sempre con un file rouge sonoro e di immaginario.
Se dovessi descrivere il flusso del disco, mi viene in mente il sound di Tame Impala. Quando glielo dico, mi risponde: “Beh, Tame Impala è sicuramente uno dei miei artisti contemporanei preferiti. Ascolto molto più Tame Impala che il rap americano. Comunque, io non sono un grande premeditatore, non progetto molto, vado molto più a sentimento su tutto. Quindi niente di quello che senti è stato calcolato, è tutto venuto in maniera molto istintiva”.
Mace si interrompe un attimo e poi riprende raccontandomi come abbia sviluppato il lavoro con i singoli artisti: “Beccavo un artista e prima di iniziare a lavorare ci parlavo molto, sulle nostre esperienze di vita, su cosa stiamo provando in quel momento, mi piace settare un mood che innanzitutto li aiuti anche a scrivere cose più dense. Poi magari io mi ero immaginato una tessitura musicale, uno spunto per quell’artista da cui partire e dopo quando si iniziava a scrivere insieme in studio la prima parte, poi immediatamente mi veniva in mente chi fosse la prossima persona da coinvolgere su quel brano. È stato tutto molto fluido, molto naturale” ammette “Sicuramente è un progetto dove ho il pieno controllo creativo, mentre se produco un album per un artista chiaramente ci metto un sacco del mio, e cerco anche di trasportare l’artista al di fuori della sua comfort zone, però allo stesso tempo lascio il mio ego fuori dalla stanza. Io lì stavo facendo il tuo disco, quindi voglio amplificare le tue idee, non necessariamente infilarci le mie. Mentre invece nel mio disco sono io a tirare le redini, decido dove portare i brani” mi spiega.
Mace, tra le altre cose, ha seguito uno dei dischi più rilevanti dello scorso anno, cioè “DNA” di Ghali, che mi rivela essere stata un’esperienza assolutamente naturale e genuina: “Io e Ghali ci conosciamo da anni. Se non sbaglio era appena uscito “Optional”, uno dei primi brani che ha buttato fuori da solo e mi son detto: “Cazzo, questo è davvero forte” e l’ho invitato in studio per conoscerci. Era un momento in cui io ancora facevo le produzioni trap e poi me ne andavo in tour in Giappone, quindi senza nessuna intenzione in particolare, così come con Sfera ai tempi, li ho invitati in studio come spesso tuttora faccio, se vedo un giovane emergente che mi piace cerco di beccarlo per scambiarci idee, non necessariamente per lavorare insieme” mi rivela.
“Quindi ci eravamo conosciuti e mi aveva colpito molto il suo modo di fare e si è effettivamente affermato come uno degli artisti più interessanti in Italia. È venuto poi da me l’estate del 2019, chiedendomi di produrgli tutto il disco. Lui aveva già una marea di demo, alcune già molto sviluppate, altre in fase molto embrionale. Quindi decisi di finire le tracce quasi pronte, dove non serviva che ci mettessi mano io, ma tutte quelle che erano in fase embrionale decisi di svilupparle io. Poi ho seguito la registrazione di tutte le voci, quindi anche aiutandolo a fare la migliore performance vocale possibile, anche per dare un’unità e avere il quadro generale di quello che stava succedendo, piuttosto che fare pezzi con un sacco di produttori, che sicuramente è una figata e ha i suoi pregi però magari spesso manca di coesione” mi dice "Quindi l’ho un po’ aiutato a selezionare le migliori demo e scegliere quali lasciare fuori, infatti ha ancora un sacco di roba inedita. Quindi io ho fatto due beat da zero, cioè “Giù x Terra” e “Extasy”, e poi l’ho aiutato a dare forme alle altre”.
Ascolta qui "Extasy" di Ghali con Mace:
Mi racconta anche delle tracce che hanno sviluppato insieme: “Ad esempio lui aveva questi due mezzi pezzi più trap ed io l’ho convinto ad unirli, ed è venuta fuori “Marymango”: erano due demo staccate, una fatta con Ava e l’altra sempre con Ava ma con la coproduzione di tha Supreme. Poi io gli ho prodotto tutti i vocal e ho connesso le due robe insieme. Aveva dei brani scritti con Canova, che è un produttore puramente pop, e gli ho praticamente costruito il beat da zero basandomi sugli elementi costruiti prima ma rifacendo completamente le drums, risuonando tutti i synth, per dargli un suono più coeso con il disco”.
Poi continua: “La gestazione è stata questa, ovviamente in un disco come DNA ci sono alcuni brani che mi piacciono molto di più e altri che mi piacciono molto meno, però erano giusti per il suo percorso. Anche quello è un esempio in cui ho lasciato completamente il mio ego fuori, fosse stato il mio disco io non avrei mai messo “Good Times”, però è il suo disco, è giustissimo così, e gli ho detto “questo è il pezzo più forte che hai!”. Tra l’altro quello era uno dei pochi pezzi che non ho dovuto minimamente toccare perché era già fatto alla perfezione. È stata anche una lavorazione molto breve, abbiamo chiuso tutto in un paio di mesi” e conclude.
Quando penso ai producer album, mi immagino di dover mettere d’accordo un numero incredibile di teste tra loro estremamente diverse, ciascuna con le loro scadenze e le loro necessità. Quando chiedo quale sia stata la componente più difficoltosa del creare questo disco, lui mi dice: “Sicuramente il tempo, anche i dischi dei rapper più famosi o gli artisti più grossi, le prime robe che chiudono sono i featuring. Perché siamo in un momento storico dove tutti fanno featuring con tutti. Quindi mediamente a tutti gli artisti, non solo i big ma a chiunque sia un minimo posizionato arriverà una richiesta di featuring a settimana. Quindi tra cose a cui devono dire di no, cose che devono rimandare perché non hanno tempo, più i mille impegni, sicuramente i tempi sono stati la cosa più difficile. Soprattutto per la gestazione che ho avuto io, che era sempre a step: registro con Izi, poi vado avanti nel beat e gli do un’altra forma, poi chiamo Jack.. era sempre a step. Con tutti i tempi di attesa in mezzo, la difficoltà più grande è stata quella. Perché poi per il resto, bene o male… sicuramente ci sono nomi di persone a me vicine che per varie ragioni non sono potute essere presenti nel disco, però non sono quelle le problematiche. Sicuramente il tempo. Poi ci sono personaggi all’interno del disco che si odiano abbastanza, però forse per amore, fiducia, stima nei miei confronti, ci son voluti essere lo stesso. E questa è una cosa che mi è piaciuta” mi dice sorridendo.
“Qual è la tua traccia preferita?” gli chiedo.
“Questa è difficile. Probabilmente “Ayahuasca” è la mia canzone preferita, perché per quanto credo di aver spaccato tutti i generi, in gran parte del disco, e aver creato una forma molto mia, molto personale di fare musica, “Ayahuasca” è proprio il pezzo che se non l’avessi fatto io non sarebbe esistito.
Hai Colapesce che parla di psichedelia cantando come un Battiato in acido, e Chiello con la sua strofa super lisergica, urlata, il tutto su un tappeto che unisce musica elettronica, tamburi sciamanici, flauti amazzonici e sitar. Non so, quella roba lì non esisteva prima e quindi quello è sicuramente il mio brano preferito” e ride “Poi ovviamente sono molto legato a tutti i brani su cui canta Venerus, che è comunque il mio artista preferito in Italia, e non perché sono di parte. Lo è da quando ho ascoltato le sue prime demo. Però sai, son tutti figli miei, non c’è quello a cui vuoi più bene. Comunque in generale ho visto che gli artisti si sono tutti fidati molto di me, nonostante io abbia cercato di prenderli per mano e tirarli un po’ a fare qualcosa che non facevano di solito”.
Ascolta qui "AYAHUASCA" con Chiello e Colapesce:
A mostri sacri del rap, si affiancano artisti emergenti, ma estremamente talentuosi. Gli chiedo quindi da cosa nasca questa scelta: “Prima di tutto perché, come ti dicevo prima, essendo estremamente curioso e sempre in cerca di novità, quando sento un emergente nuovo mi gaso. E quindi non me ne frega niente che sia famoso o sconosciuto. Se un artista mi piace, mi piace, punto. Anzi, come nel caso di J Lord e Fritz ho cercato soprattutto di prendere un ospite che tu associ alla musica old school e metterlo con il super emergente. Oppure prendere Salmo, che è l’artista più venduto in Italia, con l’artista anagraficamente più giovane all’interno del disco”.
Poi continua: “Mi è piaciuto creare proprio questo accostamento di nomi super emergenti con nomi incredibilmente consolidati. Io quando ascolto un artista non lo ascolto come se fosse un emergente o come un artista consolidato, per me sono artisti, punto. Il mio approccio nei loro confronti non è diverso. Tenere d’occhio gli emergenti è una cosa che mi tiene vivo, prima ti raccontavo di quando invitavo Ghali e Sfera in studio che erano appena usciti con i primi pezzi che giravano su YouTube ed erano fuori dal mirino, ma io ero incuriosito dal conoscerli perché sicuramente beccare l’artista molto più giovane di te ti aiuta a tenerti giovane mentalmente e poi comunque sono un grande curioso, quindi mi interesso sempre”.
“Ultima domanda: tu pensi che effettivamente OBE riesca a parlare all’ascoltatore italiano, al pubblico italiano in generale? Cosa ti aspetti effettivamente da questo disco?” gli chiedo.
“Ho una grande regola: non farmi aspettative” ammette "Ho eliminato le aspettative dalla mia vita. Una volta che finisco una cosa la lancio nell’universo, poi sarà l’universo a decidere cosa farne, io non mi aspetto niente. E questo sicuramente mi aiuta a rimanere più centrato su me stesso”.
Mentre riascolto il disco, oggi, poche ore dopo l’uscita, mi rendo conto che questo disco non avrebbe potuto farlo nessun altro e la vera risposta a quest’ultima domanda sia in realtà ciò che mi ha detto subito dopo aver chiuso il microfono, mentre ci stavamo salutando, pochi giorni prima prima dell’uscita del disco: “Credo assolutamente che sia un disco che possa piacere al pubblico italiano, è una roba nuova per loro, però è talmente vera che sicuramente può arrivare” mi ha detto: ”E credo che “La Canzone Nostra” ne sia la riprova, è completamente fuori dai generi musicali, un grande mix di influenze con una struttura diversa, e ha un artista diciassettenne sopra che ancora non era conosciuto dal grande pubblico. Quindi è sicuramente un segnale. Ma non ho aspettative, non sono nemmeno una persona troppo competitiva nella vita, che guarda quello che fanno gli altri. Non me ne frega niente. Spero che faccia viaggiare”.
Ascolta qui "OBE" di Mace: