La controversia vende perché l'era in cui stiamo vivendo, quella dell'oligarchia dei social media, trova terreno fertile e contemporaneamente amplifica le reazioni negative degli utenti, le critiche, l'indignazione di (finti) moralisti molto veloci a digitare e non troppo a pensare.
Non c’è forse occasione migliore per parlare di controversia nel mondo della musica di quella offerta dalla recente uscita di “WAP” di Cardi B con Megan Thee Stallion. La canzone è stata accompagnata da un video che ha contribuito in larghissima misura a farla schizzare ai vertici delle classifiche mondiali e a creare una letterale bufera mediatica intorno alle due artiste, e non solo.
Si tratta di uno di quei momenti in cui salta all’occhio in modo più che evidente la vera natura e il vero funzionamento dei social media.
“WAP” è un inno al sesso e al piacere femminile, con un ritmo reso estremamente contagioso da un hook estrapolato da un brano disco del 1993 di Frank Ski, dal titolo “Whores in This House”. Il video, poi, traghetta la traccia agli estremi del “parental advisory” e vede diversi cameo di popstar come Rosalia, Normani e Mulatto, ma anche una breve comparsa di Kylie Jenner.
Ora, sia la canzone che il video sono volutamente provocatori e irriverenti, ma neanche Cardi B si sarebbe aspettata la reazione a catena che hanno scatenato: più o meno chiunque si è sentito “offeso” in qualche modo dal singolo, tanto che in pochissimo tempo “WAP” è arrivato a dominare il discorso ovunque. Più di un deputato repubblicano del Congresso degli Stati Uniti ha espresso il suo sincero shock su Twitter. Al signor James P. Bradley, “WAP” ha fatto venire voglia, e cito testualmente, “di versarsi acqua santa nelle orecchie”.
Tra le altre persone che hanno preso parte attiva nel buttare benzina sul fuoco di “WAP”, Carol Baskin, la fondatrice del santuario per felini comparso nella serie hit di Netflix, “Tiger King”, che ha commentato il video in un’intervista dichiarando che “la parte peggiore è che glorifica l’idea dei ricchi di avere tigri e altri felini come animai domestici”. Cardi si è rifiutata di rispondere.
Ma per concludere in bellezza questa carrellata di reazioni da mille e un commento: esiste una petizione su Change.org per rimuovere Kylie Jenner dal video di “WAP”. Il cameo in questione, per i pochi che si sono persi il video, consiste di meno di 30 secondi in cui Jenner fa tre passi di numero in un corridoio per poi entrare in una stanza. E sì, parliamo di una petizione, come quelle che si firmano per fermare la caccia di frodo o lo scarico di sostanza tossiche nell’ambiente. E per ora l'hanno firmata oltre 70mila persone.
Tralasciando il fatto, a mio avviso estremamente triste a questo punto della storia, che la liberalizzazione sessuale femminile sia ancora ridicolizzata e/o bollata subito come la peggior volgarità esistente, mi verrebbe da chiedermi e chiedervi se tutto questo vi sembra normale. La verità è che lo è ed è solo un esempio del momento storico in cui viviamo e ci muoviamo, a volte incuranti del potere che abbiamo tra le mani, letteralmente, insieme ai nostri cellulari.
La controversia vende perché l'era in cui stiamo vivendo, quella dell'oligarchia dei social media, trova terreno fertile e contemporaneamente amplifica le reazioni negative degli utenti, le critiche, l'indignazione di (finti) moralisti molto veloci a digitare e non troppo a pensare. Cardi in un’intervista ha dichiarato di essere contenta delle reazioni sproporzionate dei politici conservatori a “WAP”: “loro continuano a parlare e intanto i miei numeri salgono”. In dieci parole, il riassunto perfetto della ragione per cui la controversia vende.
Ed è lo stesso motivo per cui i cosiddetti “haters” rappresentano una fascia di pubblico consistente per gli artisti su cui riversano il loro odio. E per cui i dissing e i beef fanno numeri vertiginosi; e per cui 6ix9ine ha monopolizzato i media sfornando hit subito dopo essersi guadagnato il marchio di snitch più odiato degli ultimi anni. Infine, è la stessa ragione per cui il diverbio Kanye-Kim-Taylor per quella famigerata frase in “Famous” ha ricevuto un’attenzione smodata da parte dei media mondiali, portando la canzone, l’album e l’artista nell’occhio del ciclone delle news. E sono solo alcuni esempi ovvi.
In Italia non è diverso, chiaramente: prendendola alla lontana, chi non si ricorda le reazioni indignate a “Mr. Simpatia” di Fibra? Se non mi sbaglio, alcune uscivano direttamente da un’aula di tribunale. Eppure è da quel momento, e non come pensano i più da “Tranne Te”, che il grande pubblico italiano si è davvero accorto di Fabri Fibra. Si parla di un pubblico che non capisce quello che sente perché non conosce il genere che pretende di criticare, ma che ha iniziato a (s)parlare del personaggio per il backlash che ha ricevuto in seguito a canzoni, appunto, controverse.
La pagina di Wikipedia di Fibra ha anche una sezione intitolata proprio “controversie”, che non tutti gli artisti hanno ma che in genere, e non sorprende, hanno quelli di cui si parla di più. Uno tra tutti? Eminem. Al grande pubblico americano (e non solo) sono sempre interessate molto le vicende private, dalle droghe in avanti, di Shady. Forse di più di quanto gli sia mai interessato quante parole riesca a rappare in un minuto. E si tratta di un numero piuttosto impressionante.
La parola che rende meglio il concetto è proprio “backlash” perché fonde "back", a posteriori, e "lash", la sferzata, lo schiaffo che riceve una canzone, un film, anche solo una frase e che è capace di determinarne il futuro. Può sembrare assurdo ma la verità è che il "backlash" vende e vendeva abbastanza anche prima dell’avvento dell’era dei social. Però ora è diventato una fonte inesauribile di clicchi, tag, menzioni, articoli, commenti e via dicendo, tanto lo sapete meglio di me come sputare veleno sui social.
Ci ricordiamo tutti quanto Sfera abbia infastidito l'Italia moralista con “Rockstar”; e “infastidito” è sicuramente un eufemismo: tutti ne parlavano già da prima che l’album uscisse, quando i manifesti che tappezzavano le fermate della metropolitana di Milano hanno dato vita ad un discorso su un artista all’epoca ancora quasi sconosciuto al grande pubblico e ora diventato a più riprese il centro dei commenti infervorati di giornalisti e boomer di ogni sorta. E come dimenticare la FSK che è passata da essere un gruppo trap esordiente a finire al telegiornale per quei cucchiai ribollenti in un teaser video.
I social media hanno aumentato il potere della controversia in generale, ben oltre il mondo dell’arte: qualche anno fa i vertici di Kentucky Fried Chicken si sono scusati per uno sfortunato evento con una pubblicità che dimostra quanto questo concetto si applichi bene più o meno ovunque. La vicenda in questione, riassunta in breve, ha visto diversi ristoranti del marchio nel Regno Unito chiusi a causa di problemi con il rifornimento della materia prima cardine dell’intero franchise, il pollo.
KFC ha pubblicato una campagna in cui l’iconico secchiello del brand presentava le lettere dell’acronimo invertite in FCK, contrazione di “fuck”. La catena di ristoranti ha addirittura vinto dei premi per la miglior campagna pubblicitaria del 2018. Sono i marketer e gli advertiser stessi a confermare quanto la controversia possa essere sinonimo di attenzione e quindi di vendite. Anzi, come si possa sfruttare e utilizzare anche nei momenti più spinosi per il nome di un brand.
La musica hip hop ha da sempre abbracciato la controversia, non come strumento atto a fare views o soldi ma come parte fondante della sua essenza: il rap è nato disturbando i moralismi e ha prosperato nonostante essi. È sempre stato controverso. Non si tratta di una novità ma adesso sembrerebbe che si stia trasformando in altro. Forse in un’occasione per portare il proprio nome dove prima non sarebbe arrivato così facilmente, forse nel prodotto naturale di una società mediatica parzialmente vittima delle sue stesse strategie.
In ogni caso si tratta di un potere, e di un’arma a doppio taglio, per chiunque si ritrovi nel suo fuoco incrociato. I meme di Britney Spears nel 2007 sono tuttora simbolo della coscienza pop di un’intera generazione e hanno sicuramente riportato i riflettori su una carriera in via d’arenamento ma non hanno aiutato la salute mentale della popstar.
Quindi è un potere che va saputo usare. Se Kylie fosse stata sostituita da qualsiasi altra starlette contemporanea, magari una meno chiacchierata (e ci vuole poco), le cose sarebbero andate diversamente. Per esempio, mettiamoci Zendaya: il video non avrebbe ricevuto la portata di attenzione che si è portato a casa, non ci vuole proprio un analista di mercato per dirlo con totale sicurezza. Stento a credere che qualcuno potrebbe mettere in piedi una petizione su Change.org per rimuovere una “America’s sweetheart” come Zendaya da un video musicale.
Ma nel bene o nel male, le views sono views. “I numeri parlano per sé stessi”, ha detto Cardi B in merito al caso “WAP”. Il contatore di YouTube, o quello di Spotify se è per questo, non fa nessuna differenza tra i click degli indignati e i click dei fan. E Cardi, da brava rapstar, che è stata capace di raggiungere la stratosfera della notorietà e delle classifiche in un periodo di tempo piuttosto breve, lo sa. Così come lo sanno tutti gli artisti che fanno della controversia, volontariamente o meno, il loro marchio di fabbrica.