Per il rapper l’amore non è una cosa semplice, ma una risposta che non arriva mai, da scavare con la musica. Anche per questo è un artista unico, oltre che intelligente.
È più facile descrivere qualcosa che si conosce o qualcosa che non si conosce? Può sembrare strano, ma ci sono casi in cui avere (o credere di avere) la risposta pronta e servita ci allontana dalla verità. Il tema dell’amore rientra di diritto in questo insieme: da secoli l’uomo si danna sul senso di queste 5 lettere per scovarlo, negarlo, in certi casi trasformarlo.
Una parola, amore, imbrigliata da fitte reti di significati ed esperienze intrecciate l’une nelle altre. L’amore è soltanto una questione culturale? A cosa rifarsi? Alla psicologia? Al mito? Alle neuroscienze? Un bel casino, che però ci dà un’indicazione importante: per avvicinarci, dobbiamo continuare a scavare.
Non è ancora stato rifinito lo scrigno che possa dischiudere l’essenza di questo termine una volta per tutte. Segno che qualsiasi definizione “precotta” è parziale, una piccola parte del tutto, e fermarsi a quella ci fa perdere del tempo sulla corsa verso la verità (o presunta tale).
Al contrario, continuare a girare attorno al concetto, scoprendone i lati nascosti, arricchisce il nostro modo di vedere quella cosa, e quindi di descriverla. La fenomenologia ci dà indicazioni preziose in questo senso: quando guardiamo un oggetto vediamo tutto l’oggetto? Basta osservare una penna, una macchina o un gatto per accorgerci che noi vediamo soltanto un lato di quell’oggetto. Per scoprire dell’altro, dobbiamo girarci intorno.
J. Cole non è né il primo né l’ultimo rapper che ha fatto attraversare la propria produzione artistica da un concetto o da un tema ricorrente. Quello che colpisce, semmai, è l’intelligenza di fondo, che gli ha permesso di lasciare la porta socchiusa, permettendo ad ogni declinazione dell’amore di entrare nella sua lirica e di contaminare il suo suono. Un rappato esplorativo, un modo di trattare l’amore, fra le altre cose, astenendosi dallo scrivere la parola fine. Anche per questo ogni sua nuova release è sia una scoperta che una riscoperta.
Lo è perché Cole sembra aver abbracciato un processo espressivo che non si basa sul dare definizioni e farsi bastare quelle. Da questo punto di vista, ben diverso nel rap è il tema dell’autocelebrazione.
L’amore in J. Cole, al contrario, cambia pelle di continuo. Complice l’età, negli inizi è maggiormente legato all’amore per se stessi; o meglio, all’amore per la proiezione di se stessi una volta raggiunto il successo. Un leit motiv che nel rap è onnipresente. Molti si sono fermati a quello.
Ma non Moe Dee, che ha saputo andare oltre l’egocentrismo, girando attorno a sé e scoprendo chi lo affiancava. Lo storytelling di “Love Me Not” (2010), ad esempio, racconta i dubbi, i travagli e i silenzi di una relazione a cavallo tra una vita normale e la fama.
Nella stessa “Power Trip” (2013) relazioni e hip hop si confondono l’uno dentro l’altro. Insomma, un altro elemento si aggiunge al quadro e viene messo in discussione. L’amore fatto di persone diventa il porto verso cui navigare.
La musica, specialmente dopo “2014 Forest Hills Drive”, riconosciuto da molti come uno spartiacque nella sua carriera, non è più l’unica invitata alle feste e ai drammi dentro la sua testa.
“03′ Adolescence” ci offre un passaggio interessante in cui confluiscono aspirazione, desiderio e rapporto con l’altro. Anche un altro sè, intendiamoci, meno timido e frenato.
In love with the baddest girl in the city, I wish I knew her
I wish I won’t so shy, I wish I was a bit more fly
J. Cole, “03′ Adolescence”
Anche “Love Yourz” (2014), uno dei manifesti del suo rap, è indicativo, perché rappresenta un invito a guardare a ciò che si ha, a non lasciarsi deragliare dal male che c’è intorno o dalla corsa alla materialità, alle imposizioni di una cultura materiale e dell’invidia. Un punto che viene spesso ripreso dal rapper negli anni successivi, e che rafforza il rapporto con quello che un umano ha già, nella propria vita.
Guarda ora: Love Yourz
Il tema della famiglia e dell’amicizia sono i lati nascosti scoperti e riscoperti con il passare del tempo. L’interludio “Once An Addict”, ad esempio, ritorna su questi passi con una narrativa pregnante. L’amore nel J. Cole più maturo è direzionato, ha un oggetto, e uno scambio. Non si nutre più soltanto di proiezioni in circuiti chiusi. Inevitabilmente, si fa più problematico.
Thinkin’ to myself, “Maybe my mama need help
Don’t she got work in the morning?
Why she do this to herself?
Hate how she slurrin’ her words
Soundin’ so fuckin’ absurd
This ain’t the woman I know, why I just sit and observe?
Why don’t I say how I feel?
When I do, she’s defensive for real
Well maybe things get better with time
J. Cole, “Once An Addict”
“KOD” (2018) è l’apoteosi (per ora) di questo processo, in cui l’altro e il complesso amore per l’altro diventa materia viva, scottante, su cui costruire musica, ma soprattutto su cui continuare a studiarsi e a farsi domande, perché i rapporti – soprattutto se numerosi – sono difficilmente inquadrabili in certezze assolute e punti fermi.
Diventa sempre più forte l’eco dell’amore per l’umanità, o comunque della questione dell’umanità. Per accorgersene basta far caso alla ripresa del titolo di un celebre romanzo di Hemingway (Per chi suona la campana), a sua volta ripreso da un passo di John Donne. Il brano è “For Whom The Bell Tolls”, l’album è “4 Your Eyez Only” (2016).
Nessun uomo è un’isola
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una nuvola
venisse lavata via dal mare,
l’Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell’umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
essa suona per te.
J. Donne, Meditazione XVII
Per questo si può parlare di scoperta e di riscoperta: si vivono nuove esperienze, e si riscopre la complessità dell’amore, che non è mai solo amore per un lui o una lei. Nella domanda iniziale c’e però una parola che sembra stonare: facile. In realtà la questione è più semplice.
Abbracciare l’idea che le cose e i concetti vadano continuamente circumnavigate ci alleggerisce dal peso gravoso dei valori assoluti. Dare qualcosa per assoluto, slegato da qualsiasi possibile negazione e rinegoziazione, impone di organizzare tutto il resto in funzione di quell’assunto. Se diciamo che l’amore è una cosa, tutto il resto viene di conseguenza, scoprendo il fianco all’incoerenza, alle aporie e alle incongruenze. Concedendoci di girare attorno alle cose, godiamo del