Marracash e Guè Pequeno hanno molte ragioni per non essere d’accordo con le parole di Salmo. Le disco hit del 2020 sono figlie della Dogo Gang.
Le parole di Salmo hanno fatto molto discutere. Sfruttiamole, perché possono essere l’occasione per aprire un importante dibattito settoriale. Ad essere in gioco non sono soltanto presente e nuovi orizzonti del genere, ma un’attribuzione dei giusti riconoscimenti.
Per chi non fosse a conoscenza, Salmo qualche giorno fa, tramite le sue storie, ha parlato di come il rap italiano stia prendendo una nuova (vecchia) direzione, riaperta dalle hit più grosse, numericamente parlando, di queste ultime settimane: ‘’Bando’’, ‘’Auto Blu’’, ‘’Boogieman’’. Punta dell’iceberg del fenomeno il brano di Shiva, che campiona il pezzo probabilmente più nazionalpopolare della dance italiana: ”Blue” degli Eiffel 65.
Il rap sull’house, sull’elettronica, sulla dance. Una via particolarmente caldeggiata dall’artista sardo, perché in questi generi abbiamo avuto un certo riconoscimento internazionale: rappare su determinate sonorità potrebbe essere ‘’molto italiano’’.
Parto con una constatazione: il dibattito fa bene. Benissimo. C’è troppo pressappochismo quando si parla di rap. Anche chi conosce il genere nelle sue diverse sfumature tende molto spesso a generalizzare. Non so darmi una ragione, ma probabilmente esiste un incentivo simile a quello che porta politici e media a ridurre il dibattito politico in una partita di ping pong tra slogan vuoti e completamente fuorvianti. Son pochi quelli che approfondiscono e, allora, per farci capire semplifichiamo il dibattito.
C’è ancora chi crede che esistano solo il boom bap e la trap. In mezzo? Boh. Ma non bastano due lettere per fare un alfabeto. E, soprattutto, nel rap non abbiamo bisogno di un largo consenso, perché alla gran parte del pubblico il dibattito settoriale non interessa. Forse il 5% di chi ascolta rap è vagamente interessato a capirne davvero: non abbiamo quindi alcuna necessità di semplificare il dibattito. Ergo: di dibattito ce n’è davvero bisogno, perché senza rischia di perdere la sua rilevanza, come genere e come fenomeno culturale. Ed è un bene che questo coinvolga gli artisti, soprattutto se sono di un certo calibro e possono parlarne con cognizione di causa e autorevolezza.
Nelle parole dell’artista sardo ci sono degli aspetti molto interessanti. Che questa roba sia italiana siamo tutti piuttosto d’accordo. A generare dibattito sono state almeno altre due questioni, cerchiamo di capirle per bene.
La prima è se una tale direzione sia auspicabile o meno. Argomento, questo, che ha scaldato soprattutto i fan, divisi tra l’euforia (innegabile, in tanti quei pezzi li stanno ascoltando in ripetizione e non venitemi a dire che è tutto merito di TikTok) e l’odio più viscerale per i brani sopracitati.
Ma non è nemmeno questo il punto fondamentale, perché oggi dire che si sta prendendo una direzione univoca è impossibile: anche se tendiamo a vedere una grossa omologazione, in realtà l’offerta artistica è piuttosto variegata. E, tra l’altro, ridurre gli ascolti del pubblico alla top 10 di Spotify è fuorviante. Quando arriveranno interi dischi improntati su questo modello, allora si potrà dire che davvero si sta intraprendendo una direzione. Ma non è così, almeno per ora. Prendiamolo come un occhiolino, un avvicinamento, non come una svolta decisa e coerente.
La questione principale non è sul futuro, ma sul passato. Ed è su questo punto che c’è stata una frizione tra alcuni pesi massimi. Da dove deriva l’utilizzo dell’elettronica nel rap italiano? Davvero si tratta di una novità? La risposta è no, lo ha detto anche Salmo.
Il rapper ha riconosciuto in Fibra, Phra Crookers e nella stessa Machete un ruolo pioneristico. Ma manca qualcuno nell’elenco. E quel qualcuno è stato troppo importante per la creazione di questa wave per dimenticarsene. E, data la natura fortemente evolutiva, dinamica e competitiva del nostro genere preferito, è importante assegnare i giusti meriti a quel qualcuno.
Marracash e Gué hanno rivendicato il loro ruolo nella commistione tra hip hop e musica elettronica, commentando sotto un post di Noisey che riportava quanto detto da Salmo. ‘’Escono pezzi su hit italiane dance e su musica elettronica dal 2010’’, ha commentato Marra. ‘’pure 2008!’’, ha puntualizzato Guè.
Prima di andare avanti, vorrei fare una precisazione. Non stiamo discutendo su chi ha fatto un pezzo campionando una hit elettronica per primo, perché operare una ricostruzione storica di questo tipo è piuttosto complesso. La discussione è su chi lo ha fatto come scelta consapevole, in un certo senso costante, assumendola come cifra stilistica della propria proposta. E, aspetto affatto secondario, in maniera abbastanza forte da lasciare un solco: nel genere, nel pubblico e nella cultura.
La Dogo Gang è stata la prima, come su molti altri aspetti in Italia, a cercare di rendere più italiano il genere, campionando hit dance ed house degli anni ’90 nei pezzi. Facendolo, soprattutto, in brani che sono rimasti superstreet: non si può dire lo stesso per la gran parte degli esperimenti di questo tipo in Italia. Non me ne vogliate, ma c’è modo e modo di contaminare il rap. La Dogo Gang lo ha fatto preservando la sua essenza.
Esempi? ‘’Quello che deve arrivare’’ nel 2008 di Marracash campionava ‘’Arriva Arriva’’, hit dance del ’95 di Z100. Un anno dopo nel video di ‘’Brucia Ancora’’ dei Dogo comparivano Ricky Le Roy e Franchino, figure storica della dance elettronica in Italia. Nel 2010 uscì poi ‘’Che bello essere noi’’, un disco con tantissimi tributi al mondo della dance, tra cui forse il più iconico fu ‘’D.D.D.’’ (che stava per ‘’Dance Dance Dance’’, più esplicito di così ahaha). Nel 2013 fu l’ora di ‘’La Tipa del Tipo’’. Potrei continuare a lungo.
Ancora più importante del tributo e del campione in sé, quello che contraddistinse la Dogo Gang fu una scelta culturale. L’obiettivo, riuscito, era quello di avvicinare la street culture, ancora minoritaria, a quella del tamarro italiano, radicata da anni nel nostro Paese.
Nelle parole di Salmo, in conclusione, ci sono degli spunti interessanti. Alcune intuizioni sono sicuramente corrette, su altre ci vorrebbe più precisione. Anche nello stesso riconoscimento alla Machete di un ruolo pionieristico nella commistione tra rap e musica elettronica italiana non mi trovo del tutto d’accordo. Nel senso: da un lato è indubitabile che la Machete abbia fatto della commistione con moltissime influenze musicali (e anche culturali) la sua chiave stilistica per eccellenza. Ma dall’altro la provenienza italica delle stesse mi lascia perplesso. Esempio più eclatante è la ripresa della dubstep, genere sì di musica elettronica, ma che è nata a Londra e non ha avuto alcun successo davvero significativo in Italia. Anche dal punto di vista cronologico, la dubstep è piuttosto recente rispetto alle ”hit anni ’90” che costituiscono oggetto del discorso.
Marracash e Guè hanno le loro ragioni per contestare le argomentazioni di Salmo. Laddove altri hanno portato il rap nella dance, la Dogo Gang ha messo la tradizione elettronica italiana al servizio delle sue rime e della sua epica narrazione urbana. Non facciamo troppa confusione: diamo alla Dogo Gang quello che è della Dogo Gang.