Ogni artista commette degli errori. Anche il nostro mito. Un fatto con cui è sempre più difficile imparare a convivere.
La passione, soprattutto la più travolgente, porta con sé dei rischi. Tra i pericoli più incombenti, l’annebbiamento, che intralcia la lettura razionale di molte situazioni. Un’eventualità con cui dover fare i conti, che ci mette puntualmente in difficoltà.
Prendiamo ad esempio la cieca devozione che continua a caratterizzare quell’ampia fetta di appassionati di motori che risponde al nome di “fan di Valentino Rossi”.
Il Dottore, che ha il merito di aver rivoluzionato e spettacolarizzato come nessun altro la MotoGp, ha conquistato e ingaggiato milioni di persone con il talento e anni di vittorie schiaccianti. L’oceano giallo che alimenta il mito di VR46 ha portato entusiasmo su più fronti.
Ma, va detto, ha anche filtrato massicciamente la visione e la reazione davanti a determinati eventi. Si sono registrate spesso esultanze per le cadute degli avversari di Vale e fischi durante le vittorie altrui.
Segno di una passione forte, viscerale, che ha però complicato (e lo scrive un suo fan) molti riconoscimenti di valore più o meno effettivi, tanto delle prestazioni di Rossi – anche le più opache – quanto dei meriti altrui.
Nel rap succede qualcosa di simile. Quando si è talmente tanto fan di un artista da inseguire per partito preso la sua glorificazione continua ad ogni costo, rischia di venire meno la presa del pensiero critico sulla sua posizione effettiva nel rap game.
Ma soprattutto, diventa davvero problematico dare il giusto senso e peso ad ogni capitolo della sua discografia.
Il fan che si impegna nell’esercizio del vaglio di ogni atto della propria produzione preferita è probabilmente il più maturo e coraggioso.
Questo perché, oltre ad affrontare a viso aperto pro e contro di un legame, si avvicina sempre più alla pienezza dell’esperienza d’ascolto e abbraccia il rap senza strategie di comodo.
Non è sempre facile, ma è un orizzonte verso cui tutti noi dovremmo quotidianamente volgere lo sguardo.
Per il fan più sfegatato e acerbo tutto ciò che esce dalla bocca del proprio idolo è oro. Ma è inevitabile che col passare del tempo si acquisisca un’esperienza maggiore; proprio questa nuova conquista ci permette di ritornare sui nostri passi e di dare un peso diverso alle cose. Anche ad anni di distanza.
Se ammettere un ridimensionamento del volume occupato dal nostro artista preferito nello scacchiere discografico costa caro, è ancora più doloroso ammettere che ad un certo punto della sua carriera si è perso per strada.
Intendiamoci, si è perso dal punto di vista del gusto del fan, che si sente (sulla falsa riga di Protagora) misura di tutte le cose. Il problema maggiore di un certo tipo di ascoltatori è l’incapacità di uscire da se stessi, e di vedersi in quanto tali. Come un essere vivente che non si è mai visto allo specchio, o che non ha mai acquisito un’idea di sé stesso, in senso riflessivo.
Il suo mondo non è la sua verità, ma LA verità, l’unica possibile. Ma poniamo, per questa volta, che ci sia un’evoluzione che possa innestare un maggior sforzo critico in ogni utente.
A quel punto, usciti dal sonno dogmatico, ogni discografia emerge per quello che è: un percorso, fatto di deviazioni, scorciatoie, salite e discese. Non uno sfondo senza ombre, monocromatico, immacolato e accecante per la sua luminosità.
Se l’omissione di un “neo” nasconde una consapevole negazione di una delusione cocente – non è mai gratificante trovarsi tra le mani un disco tanto atteso quanto deludente – bisognerebbe rifarsi alle parole dalla semplicità ed efficacia disarmante di Jigga per scacciare certi abiti mentali, e crescere così sotto aspetti inediti.
Una sconfitta non è una sconfitta, è una lezione.
Jay-Z, “Smile,” 4:44 (2017)
Chi abbandona i panni del fan impugna le armi per fronteggiare lo scontro più aspro: quello contro le proprie credenze. Il credo che il proprio artista sia perfetto in tutto e per tutto cade, e lascia il posto a gradienti diversi di riuscita e qualità.
Stilare classifiche all’interno di una discografia è un grande atto di riconoscimento. Non solo perché si riannoda con mano il filo che attraversa una storia. Si legittima uno spessore raggiunto con il lavoro, e un continuo tentativo di esplorazione: quattro dischi tutti uguali, recepiti tutti allo stesso modo, cosa ci restituiscono di quell’artista?
Forse tutto quello che poteva dare. Un fuoco già spento, un rimario esaurito, una cultura musicale povera e oltranzista.
Al contrario, provare sentimenti contrastanti a seconda del progetto è spesso indice di una vivacità artistica da premiare, soprattutto se i giudizi sono slegati dalla legge dell’ultimo album. Che, non si sa come mai, viene sempre definito il peggiore.
Forse faciliterebbe il compito sostituire alla verticalità della classifica l’orizzontalità della definizione identitaria dell’artista, ben più aderente al vissuto rispetto a qualche numero.
Trovare un capitolo della saga di un rapper meno avvincente di un altro non dovrebbe spingerci a fare finta che non sia mai esistito o a rinchiuderci nel “sono tutti bellissimi”.
Dovrebbe, al contrario, farci includere quella release nell’intimitá del rapporto con i nomi più amati. Un’uscita da preservare con lo stesso interesse per le altre: è una tappa inaggirabile di una crescita. È il difetto del partner che finisce per renderla unica. La pietra su cui è stata poggiata la successiva.
In questo senso è fondamentale non chiudersi alle spalle la porta che ci separa da un giudizio, perché forse, prima o poi, finiremo per riattraversare quella soglia, riscoprendo un disco che credevamo perduto. Chissà cosa diremo di “ye” tra qualche anno.
Un discorso che vale anche in senso opposto. Cosa c’è di peggio di dare per buono ogni respiro di un artista per poi svegliarsi una mattina con un carico insostenibile di ripensamenti? A quel punto sí, che si abbandona un percorso.
Se invece si facesse lo sforzo di capire e di sostare sulle motivazioni, fin dal primo ascolto senza giudizi a priori, ci si ritroverebbe con le spalle sempre più larghe; sempre più attrezzati a leggere le mosse di una carriera che sentiamo nostra ora più che mai. Semplicemente perché ne accettiamo anche i passi falsi. E la messa in discussione ci fortifica.
L’ammissione ci ricorda il significato più autentico dell’essere fan: prendere parte ad una missione. Scegliere di crescere assieme a qualcuno.
Ma, come ci insegna Darwin, l’evoluzione non fa salti. Ogni stato evolutivo che sia necessario si manifesta. Se serve per adattarsi meglio al presente, qualcosa si perde per strada, anche se alle nostre orecchie dava tanta soddisfazione. Al centro di questa missione c’è un rapporto a due; non quello che faremmo noi sostituendoci all’altro polo.
Una lettura da auspicare ed esercitare, per due scopi: riuscire a scavare in profondità il senso più autentico di una produzione, di un corpus di opere e di un’evoluzione del suono, ma soprattutto migliorare come ascoltatori. Non solo del rap, ma anche dell’Altro. Tradotto, di noi stessi: ad ascoltare soltanto la nostra verità finiremo per ritrovarci con un pugno di mosche.